giovedì 21 giugno 2012

ADVENTURES IN ECLECTIC LAND: intervista ad Amptek sulle produzioni discografiche indipendenti



Eclectic Records e poi Productions è un’entità dietro la quale si sono mosse le produzioni di una serie di progetti e di collaborazioni fra Amptek e il Dr.Lops e una rosa di altri musicisti.

Amptek, Entropia, Auto.Vox, Zyqqurat Vertigo, Exit Strategy e poi Recycle e altri autori della scena italiana sono stati nel tempo pubblicati da Eclectic, perfino i napoletani Retina.it che hanno trovato il proprio esordio discografico proprio su una compilation della fine degli anni 90: “Adventures in Eclectic Land vol.1”.

Dr.Lops, tastierista e compositore, proveniente dall’underground del rock sperimentale degli anni 80, è uno dei membri fondatori di Entropia, ed è produttore esecutivo di Eclectic, personaggio fuori dai riflettori anima praticamente tutte le produzioni di questa label.
Amptek aka Alex Marenga, molto attivo anche nel panorama radiofonico, collabora costantemente con Recycle in Musica Machina, e cura degli special su The Zone, ambedue trasmissioni dell’emittente romana Radio Città Aperta (FM 88.9).
Raccogliamo alcune dichiarazioni di Amptek in merito all’esperienza Eclectic e alle mutazioni del mercato della musica degli ultimi anni.


D.Come nasce Eclectic Records?

R. Nasce da un’idea di Alessandro Grasselli, un’eminenza grigia dell’underground elettronico romano,  all’epoca molto giovane, si rivelò presto intraprendente e mi spinse verso la fondazione di un’etichetta indipendente. Questo coincise con la fondazione del gruppo Entropia, nel quale confluivano elementi dei Frammenti di Caos e altri musicisti fra i quali il Dr.Lops. Questa idea di Alessandro Grasselli venne quindi raccolta da me e dal Dr.Lops, Grasselli ideò il nome, e suggerì come impostare le prime due-tre produzioni, e contattò anche degli artisti interazionali come I/F o Seekness affinchè ci permettessero di pubblicare alcuni loro brani. Facemmo il cutting dei primi due vinili E.P. negli studi di Abbey Road a Londra, “Chinese Revenge” (uno split EP con I/F, Gabriele Rizzo, ADC/ D’Arcangelo) che uscì nel 1997 e poi “AMPTEK: DECLASSIFIED” pochi mesi dopo.


D. Eclectic ha poi subito delle trasformazioni e un percorso produttivo

R. Abbiamo pagato lo scotto dei problemi di distribuzione. Siamo stati molto aiutati all’inizio da Marco Passarani, Andrea Benedetti e da Sandro Nasonte, a cui credo varie etichette romane debbano qualcosa, ma  generi musicali che volevamo trattare erano eterogenei, volevamo spaziare e ci infrangemmo contro i muri del sistema economico attorno al quale, all’epoca, si incentrava il sistema del business musicale anche a livello indipendente. Pubblicammo alcuni titoli senza grande fortuna investendo soldi che non rientravano mai e quindi interrompemmo le pubblicazioni di cd e vinile. Riprendemmo in modo costante dopo una pausa nei primi anni del duemila, quando si aprirono le porte della distribuzione immateriale. Grazie alla vendita di musica liquida abbiamo ripreso a far uscire musica in modo costante.
D. Cosa è successo al mercato della musica?
R. Sento in giro, anche da parte di addetti ai lavori delle cose decisamente confuse , retoriche e alcune volte nostalgiche. Esistono differenti livelli con i quali va esaminata la trasformazione del mercato della musica generata dalla rapida evoluzione della rete e dalla relativa incapacità dell’industria di adeguarsi.
E’ necessaria secondo me una riflessione e un bilancio serio degli ultimi 30-40 anni, senza di questo tutte le balle che si sentono su come “prima era meglio oggi è peggio”, oppure “era meglio il vinile”, o tutta una serie patetica di “come eravamo”, non tengono conto della vera natura di quel periodo, e per questo producono ragionamenti distorti.

La riflessione va fatta partendo da un primo assunto di natura sovrastrutturale: tra il 1965 e il 1995 tra i pilastri del sistema capitalista industriale multinazionale, insieme all’industria del petrolio, dell’auto e delle armi, c’è stata l’industria discografica. Questo mostro capitalista si è evoluto seguendo una curva caratterizzata da varie fasi che fra il 1978 e il 1990 circa ha raggiunto il culmine del suo sviluppo.

Come tutte le industrie, specialmente quando sono all’apice della loro forza, quella discografica è stata padrona assoluta del processo produttivo della musica. La musica degli anni 50-60 aveva ancora delle caratteristiche artigianali, l’artigiano musicista definiva, insieme a figure pre-industriali, impresari e manager locali, alcuni elementi del prodotto, ma dopo questa fase pionieristica quella dei negozianti di elettrodomestici trasformati in manager (alla Brian Epstein), quando la musica è diventata industria, come in tutti i settori dell’industria fordista, il processo produttivo è stato frutto di un controllo assoluto del capitalismo.

Inoltre, come in qualsiasi industria, i processi decisionali, su quali prodotti immettere sul mercato e in base a quali logiche, sono definite dal management, dai direttori marketing e commerciali, non certo dal pubblico, oggetto solo di sondaggi di mercato. Altro elemento chiave: l’industria discografica, come quella automobilistica o quella petrolifera ha alimentato un indotto di altre attività imprenditoriali, compresa quella radio-televisiva.
Da questi elementi cosa emerge? Che un mostro industriale ingordo di miliardi per quasi trent’anni, basandosi sui sondaggi di mercato e avvalendosi di un indotto sterminato, ha immesso sul mercato dei prodotti musicali decisi dai manager delle aziende, drogando e deformando il gusto del pubblico a proprio piacimento, generando miliardi di profitti. E come sappiamo, in un mercato maturo, il pubblico viene segmentato e i prodotti vengono posizionati in base a un criterio di marketing, per cui un’industria colossale, come sono state le major, non producono  solo per un segmento ma per vari target di consumatori, anche quelli ritenuti di “nicchia”.

Da questo mio ragionamento si evince un concetto: che se non ammettiamo che per quasi trent’anni i nostri gusti, le nostre scelte di acquisto e i prodotti, salvo il cosiddetto underground indipendente, sono state il frutto di una immensa manipolazione, non avremmo mai chiaro cosa di realmente valido è stato prodotto e cosa invece di indotto dal bombardamento mediatico la nostra mente ha assimilato e digerito.

E nemmeno avremmo chiari quali sono stati i fenomeni propriamente musicali e quali invece siano le altre fenomenologie legate al costume, alle mode, alla psicologia adolescenziale del periodo che hanno reso un cantante o un personaggio di successo.
In questo immenso calderone di elementi vanno messi anche i supporti, i dischi i cd, che sono solo supporti, oggetti un tempo necessari a distribuire la musica e che sono stati la chiave della mega-mercificazione della musica.

D. quindi pensi che tutti i miti della musica degli ultimi 40 anni siano effimeri simboli del consumismo?

R. Non tutti sicuramente, ma vanno certamente ridimensionati e collocati secondo un valore oggettivo scevro dai condizionamenti. Innanzi tutto come ho detto prima ci sono varie fasi, una è quella pre-industriale, i due paesi nei quali nasce una vera industria discografica sono Stati Uniti e Gran Bretagna, i Beatles divengono baronetti per questo, creano un settore industriale dove non esisteva. Mi sento di affermare che fino alla fine degli anni 70 siamo in una fase di curva crescente di rafforzamento e di strutturazione di un settore industriale nuovo, che inizia solo negli anni 80, con la ristrutturazione capitalista che abbraccia tutto il mondo industriale, a divenire un’industria matura.
Quindi fino a quel momento l’industria discografica non è un’industria matura, ma un settore economico che si muove esplorando ciò che in quel momento sta per nascere spontaneamente nel sottobosco dell’underground e tentando di intercettarne i protagonisti nascenti immettendoli nel proprio portafoglio. Di fatto è un’epoca , quella degli anni 60-70, ancora di talent scout, e di movimenti musicali molto legati agli umori, anche politico-sociali, del pubblico. Il pubblico, ovvero i clienti, di questa industria diverranno subito i giovani dei grandi centri urbani, il target attrezzato tecnicamente e culturalmente ad acquisire al musica come merce.

Dagli anni 80, l’era della maturità, l’industria è in mano a veri manager, in grado di scegliere una produzione in base alle ricerche di mercato e ad imporre i prodotti grazie alla promozione, in questa fase, a mio avviso, il valore reale di questi prodotti va demistificato, va depurato della mitologia promozionale, va radiografato e analizzato in un’altra ottica. E’ la fase in cui fenomeni di costume divengono artisti nel campo musicale, la musica è un elemento di contorno alla vendita di un personaggio. Difatto ancora oggi questa industria sopravvive, anche se con molte difficoltà e molte meno rendite, come produttrice di personaggi, per l’unico media ancora in grado di creare profitti: la televisione.

D. E cosa cambia oggi?

R. Essendo venuto a mancare l’oggetto merce supporto, fulcro di questo sistema economico, del quale il negoziante stesso diveniva paradossalmente un pre-selezionatore, il sistema si sta ridimensionando divenendo un settore industriale minore. Nell’era matura dell’industria discografica il cliente frequentava determinate tipologie di negozi auspicando che in questi il commerciante effettuasse una scrematura in base al segmento di mercato afferente al cliente stesso. In pratica il pubblico affidava ad un commerciante il compito di decidere entro quali parametri delimitare i prodotti. E identicamente dobbiamo considerare gli stakeholder e gli opinion leader dei media, come è noto la promozione di questo settore era prevalentemente mediata da figure di questo genere. 

Questi intermediari nelle radio e nelle tv adattavano i prodotti dell’industria ad un proprio business personale, esattamente come il negoziante, che era un dettagliante del prodotto supporto, invece l’intermediario radiofonico o tv vendeva altre cose attraverso l’uso della musica, o  spazi pubblicitari o serate danzanti basate sulla fruizione sociale del prodotto musicale stesso. Ma come possiamo pensare di affidare decisioni inerenti alla nostra formazione musicale a chi di questo fa un proprio business? Questa è una contraddizione ancora aperta, ed è per questo che manca un’analisi sincera e obiettiva del fenomeno.

Per il resto l’attuale sviluppo delle reti informatiche ha annientato il supporto, il supporto è un oggetto plastico finalizzato al trasporto dal produttore al consumatore dell’informazione musicale. Dal momento in cui questo trasporto è possibile altrimenti viene a mancare il senso del commercialo di questi oggetti plastico resinosi, vengono a mancare interessi che hanno condizionato le menti e il gusto di miliardi di persone. Oggi c’è un mare nel quale tutti hanno la loro proposta egualmente raggiungibile, non c’è nessuno che sceglie al posto nostro, o meglio nascono altre contraddizioni di ordine diverso, ma che per lo meno non hanno come fulcro solo le decisioni di qualche grasso capitalista.

D. E quali sono, a tuo avviso, le contraddizioni nell’attuale fenomenologia di produzione e fruizione della musica?

R. ci sono come al solito delle deformazioni causate dall’avidità dell’industria, che sfrutta la tecnologia per diffondere sistemi riproduttivi portatili che degradano la qualità della fruizione, come per l’mp3 e per la diffusione dei vari pod caccavella che riproducono il suono a qualità mediocre.
C’è la mediazione dei social network e il ruolo della condivisione dei file, ma sono tutti elementi che impattano su tutto non solo sulla musica, sull’informazione in generale e sulla mentalità delle persone.

C’è  anche la distribuzione gratuita o a bassissimo costo del prodotto musicale, che annienta non solo il parassitario sistema industriale delle majors, ma arriva a non garantire nemmeno la sopravvivenza a chi opera in questo settore. E forse , come dovrebbe del resto essere, ogni epoca ha i suoi assestamenti sociali e dopo l’era nella quale, tra i musicisti era nata una composizione sociale in grado di farli assurgere al massimo grado della scala sociale, ci si trova innanzi a un ribaltamento. A una nuova fase nella quale questa attività non ha più particolari ruoli nel sistema economico e non quindi non è più in grado di essere produttrice di ricchezze materiali, e forse questo manterrà vicini a questo tipo di attività coloro che hanno un approccio disinteressato.