Eclectic Records e poi Productions è un’entità dietro la
quale si sono mosse le produzioni di una serie di progetti e di collaborazioni
fra Amptek e il Dr.Lops e una rosa di altri musicisti.
Amptek, Entropia,
Auto.Vox, Zyqqurat Vertigo, Exit Strategy e poi Recycle e altri autori
della scena italiana sono stati nel tempo pubblicati da Eclectic, perfino i napoletani
Retina.it che hanno trovato il proprio esordio discografico proprio su una
compilation della fine degli anni 90: “Adventures in Eclectic Land vol.1”.
Dr.Lops, tastierista e compositore, proveniente dall’underground
del rock sperimentale degli anni 80, è uno dei membri fondatori di Entropia, ed
è produttore esecutivo di Eclectic, personaggio fuori dai riflettori anima praticamente
tutte le produzioni di questa label.
Amptek aka Alex Marenga, molto attivo anche nel panorama
radiofonico, collabora costantemente con Recycle
in Musica Machina, e cura degli
special su The Zone, ambedue
trasmissioni dell’emittente romana Radio Città Aperta (FM 88.9).
Raccogliamo alcune dichiarazioni di Amptek in merito all’esperienza
Eclectic e alle mutazioni del mercato della musica degli ultimi anni.
D.Come nasce Eclectic Records?
R. Nasce da un’idea di Alessandro Grasselli, un’eminenza
grigia dell’underground elettronico romano,
all’epoca molto giovane, si rivelò presto intraprendente e mi spinse
verso la fondazione di un’etichetta indipendente. Questo coincise con la
fondazione del gruppo Entropia, nel quale confluivano elementi dei Frammenti di
Caos e altri musicisti fra i quali il Dr.Lops. Questa idea di Alessandro
Grasselli venne quindi raccolta da me e dal Dr.Lops, Grasselli ideò il nome, e
suggerì come impostare le prime due-tre produzioni, e contattò anche degli
artisti interazionali come I/F o Seekness affinchè ci permettessero di
pubblicare alcuni loro brani. Facemmo il cutting dei primi due vinili E.P. negli
studi di Abbey Road a Londra, “Chinese Revenge” (uno split EP con I/F, Gabriele
Rizzo, ADC/ D’Arcangelo) che uscì nel 1997 e poi “AMPTEK: DECLASSIFIED” pochi
mesi dopo.
D. Eclectic ha poi
subito delle trasformazioni e un percorso produttivo
R. Abbiamo pagato lo scotto dei problemi di distribuzione.
Siamo stati molto aiutati all’inizio da Marco Passarani, Andrea Benedetti e da
Sandro Nasonte, a cui credo varie etichette romane debbano qualcosa, ma generi musicali che volevamo trattare erano
eterogenei, volevamo spaziare e ci infrangemmo contro i muri del sistema
economico attorno al quale, all’epoca, si incentrava il sistema del business
musicale anche a livello indipendente. Pubblicammo alcuni titoli senza grande
fortuna investendo soldi che non rientravano mai e quindi interrompemmo le
pubblicazioni di cd e vinile. Riprendemmo in modo costante dopo una pausa nei
primi anni del duemila, quando si aprirono le porte della distribuzione
immateriale. Grazie alla vendita di musica liquida abbiamo ripreso a far uscire
musica in modo costante.
D. Cosa è successo al
mercato della musica?
R. Sento in giro, anche da parte di addetti ai lavori delle
cose decisamente confuse , retoriche e alcune volte nostalgiche. Esistono
differenti livelli con i quali va esaminata la trasformazione del mercato della
musica generata dalla rapida evoluzione della rete e dalla relativa incapacità
dell’industria di adeguarsi.
E’ necessaria secondo me una riflessione e un bilancio serio
degli ultimi 30-40 anni, senza di questo tutte le balle che si sentono su come “prima
era meglio oggi è peggio”, oppure “era meglio il vinile”, o tutta una serie
patetica di “come eravamo”, non tengono conto della vera natura di quel
periodo, e per questo producono ragionamenti distorti.
La riflessione va fatta partendo da un primo assunto di
natura sovrastrutturale: tra il 1965 e il 1995 tra i pilastri del sistema
capitalista industriale multinazionale, insieme all’industria del petrolio,
dell’auto e delle armi, c’è stata l’industria discografica. Questo
mostro capitalista si è evoluto seguendo una curva caratterizzata da varie fasi
che fra il 1978 e il 1990 circa ha raggiunto il culmine del suo sviluppo.
Come tutte le industrie, specialmente quando sono all’apice
della loro forza, quella discografica è stata padrona assoluta del processo
produttivo della musica. La musica degli anni 50-60 aveva ancora delle caratteristiche
artigianali, l’artigiano musicista definiva, insieme a figure pre-industriali,
impresari e manager locali, alcuni elementi del prodotto, ma dopo questa fase
pionieristica quella dei negozianti di elettrodomestici trasformati in manager
(alla Brian Epstein), quando la musica è diventata industria, come in tutti i
settori dell’industria fordista, il processo produttivo è stato frutto di un
controllo assoluto del capitalismo.
Inoltre, come in qualsiasi industria, i processi decisionali,
su quali prodotti immettere sul mercato e in base a quali logiche, sono
definite dal management, dai direttori marketing e commerciali, non certo dal
pubblico, oggetto solo di sondaggi di mercato. Altro elemento chiave: l’industria
discografica, come quella automobilistica o quella petrolifera ha alimentato un
indotto di altre attività imprenditoriali, compresa quella radio-televisiva.
Da questi elementi cosa emerge? Che un mostro industriale
ingordo di miliardi per quasi trent’anni, basandosi sui sondaggi di mercato e
avvalendosi di un indotto sterminato, ha immesso sul mercato dei prodotti
musicali decisi dai manager delle aziende, drogando e deformando il gusto del
pubblico a proprio piacimento, generando miliardi di profitti. E come sappiamo,
in un mercato maturo, il pubblico viene segmentato e i prodotti vengono
posizionati in base a un criterio di marketing, per cui un’industria colossale,
come sono state le major, non producono
solo per un segmento ma per vari target di consumatori, anche quelli
ritenuti di “nicchia”.
Da questo mio ragionamento si evince un concetto: che se
non ammettiamo che per quasi trent’anni i nostri gusti, le nostre scelte di
acquisto e i prodotti, salvo il cosiddetto underground indipendente, sono state
il frutto di una immensa manipolazione, non avremmo mai chiaro cosa di
realmente valido è stato prodotto e cosa invece di indotto dal bombardamento
mediatico la nostra mente ha assimilato e digerito.
E nemmeno avremmo chiari quali sono stati i fenomeni
propriamente musicali e quali invece siano le altre fenomenologie legate al
costume, alle mode, alla psicologia adolescenziale del periodo che hanno reso
un cantante o un personaggio di successo.
In questo immenso calderone di elementi vanno messi anche i
supporti, i dischi i cd, che sono solo supporti, oggetti un tempo necessari a distribuire
la musica e che sono stati la chiave della mega-mercificazione della musica.
D. quindi pensi che
tutti i miti della musica degli ultimi 40 anni siano effimeri simboli del
consumismo?
R. Non tutti sicuramente, ma vanno certamente ridimensionati
e collocati secondo un valore oggettivo scevro dai condizionamenti. Innanzi
tutto come ho detto prima ci sono varie fasi, una è quella pre-industriale, i
due paesi nei quali nasce una vera industria discografica sono Stati Uniti e
Gran Bretagna, i Beatles divengono baronetti per questo, creano un settore
industriale dove non esisteva. Mi sento di affermare che fino alla fine degli
anni 70 siamo in una fase di curva crescente di rafforzamento e di
strutturazione di un settore industriale nuovo, che inizia solo negli anni 80,
con la ristrutturazione capitalista che abbraccia tutto il mondo industriale, a
divenire un’industria matura.
Quindi fino a quel momento l’industria discografica non è un’industria
matura, ma un settore economico che si muove esplorando ciò che in quel momento
sta per nascere spontaneamente nel sottobosco dell’underground e tentando di
intercettarne i protagonisti nascenti immettendoli nel proprio portafoglio. Di
fatto è un’epoca , quella degli anni 60-70, ancora di talent scout, e di
movimenti musicali molto legati agli umori, anche politico-sociali, del
pubblico. Il pubblico, ovvero i clienti, di questa industria diverranno subito
i giovani dei grandi centri urbani, il target attrezzato tecnicamente e
culturalmente ad acquisire al musica come merce.
Dagli anni 80, l’era della maturità, l’industria è in mano a
veri manager, in grado di scegliere una produzione in base alle ricerche di
mercato e ad imporre i prodotti grazie alla promozione, in questa fase, a mio
avviso, il valore reale di questi prodotti va demistificato, va depurato della
mitologia promozionale, va radiografato e analizzato in un’altra ottica. E’ la
fase in cui fenomeni di costume divengono artisti nel campo musicale, la musica
è un elemento di contorno alla vendita di un personaggio. Difatto ancora oggi
questa industria sopravvive, anche se con molte difficoltà e molte meno rendite,
come produttrice di personaggi, per l’unico media ancora in grado di creare
profitti: la televisione.
D. E cosa cambia
oggi?
R. Essendo venuto a mancare l’oggetto merce supporto, fulcro
di questo sistema economico, del quale il negoziante stesso diveniva
paradossalmente un pre-selezionatore, il sistema si sta ridimensionando
divenendo un settore industriale minore. Nell’era matura dell’industria
discografica il cliente frequentava determinate tipologie di negozi auspicando
che in questi il commerciante effettuasse una scrematura in base al segmento di
mercato afferente al cliente stesso. In pratica il pubblico affidava ad un
commerciante il compito di decidere entro quali parametri delimitare i
prodotti. E identicamente dobbiamo considerare gli stakeholder e gli opinion
leader dei media, come è noto la promozione di questo settore era
prevalentemente mediata da figure di questo genere.
Questi intermediari nelle
radio e nelle tv adattavano i prodotti dell’industria ad un proprio business
personale, esattamente come il negoziante, che era un dettagliante del prodotto
supporto, invece l’intermediario radiofonico o tv vendeva altre cose attraverso
l’uso della musica, o spazi pubblicitari
o serate danzanti basate sulla fruizione sociale del prodotto musicale stesso. Ma
come possiamo pensare di affidare decisioni inerenti alla nostra formazione
musicale a chi di questo fa un proprio business? Questa è una contraddizione
ancora aperta, ed è per questo che manca un’analisi sincera e obiettiva del
fenomeno.
Per il resto l’attuale sviluppo delle reti informatiche ha
annientato il supporto, il supporto è un oggetto plastico finalizzato al
trasporto dal produttore al consumatore dell’informazione musicale. Dal momento
in cui questo trasporto è possibile altrimenti viene a mancare il senso del
commercialo di questi oggetti plastico resinosi, vengono a mancare interessi
che hanno condizionato le menti e il gusto di miliardi di persone. Oggi c’è un
mare nel quale tutti hanno la loro proposta egualmente raggiungibile, non c’è
nessuno che sceglie al posto nostro, o meglio nascono altre contraddizioni di
ordine diverso, ma che per lo meno non hanno come fulcro solo le decisioni di
qualche grasso capitalista.
D. E quali sono, a
tuo avviso, le contraddizioni nell’attuale fenomenologia di produzione e fruizione
della musica?
R. ci sono come al solito delle deformazioni causate dall’avidità
dell’industria, che sfrutta la tecnologia per diffondere sistemi riproduttivi
portatili che degradano la qualità della fruizione, come per l’mp3 e per la
diffusione dei vari pod caccavella che riproducono il suono a qualità mediocre.
C’è la mediazione dei social network e il ruolo della
condivisione dei file, ma sono tutti elementi che impattano su tutto non solo
sulla musica, sull’informazione in generale e sulla mentalità delle persone.
C’è anche la
distribuzione gratuita o a bassissimo costo del prodotto musicale, che annienta
non solo il parassitario sistema industriale delle majors, ma arriva a non
garantire nemmeno la sopravvivenza a chi opera in questo settore. E forse ,
come dovrebbe del resto essere, ogni epoca ha i suoi assestamenti sociali e
dopo l’era nella quale, tra i musicisti era nata una composizione sociale in
grado di farli assurgere al massimo grado della scala sociale, ci si trova
innanzi a un ribaltamento. A una nuova fase nella quale questa attività non ha
più particolari ruoli nel sistema economico e non quindi non è più in grado di
essere produttrice di ricchezze materiali, e forse questo manterrà vicini a
questo tipo di attività coloro che hanno un approccio disinteressato.